Approfondimenti

Corpo e psiche

Diario di un’esperienza professionale a contatto con il paziente
di Walter Allais (2001)

Quando a un Corso di Psicosomatica presso la Facoltà di Psicologia dell’Università di Torino mi hanno proposto di portare una mia testimonianza professionale, la prima cosa che mi è venuta in mente è stata: “Quale potrebbe essere il contributo di un medico, non psichiatra come me, nell’ambito di un corso come questo?” La risposta è stata: “Basta non pensare come un medico”. E quindi ho accettato. Per “medico” intendo quel professionista in ambito sanitario che esercita la medicina come viene concepita oggi: in maniera tecnologicamente molto avanzata, affidando la diagnosi al responso di esami e accertamenti strumentali ritenuti altamente affidabili, quasi infallibili e comunque più attendibili della sensibilità, della preparazione e del buon senso dell’essere umano medio, con lo scopo ultimo di curare la malattia, la patologia fisica (e mai – o quasi mai – di curare il malato). Affermando questo non intendo ovviamente negare la necessità di una continua evoluzione in senso scientifico delle conoscenze e delle tecniche sia diagnostiche che terapeutiche, ma ci tengo a sottolineare che la medicina non è soltanto una scienza, ma anche “un’arte” in cui entrano in gioco non solo aspetti tecnici, ma anche aspetti “umani”. La persona malata non è solo il contenitore della malattia ma un individuo che chiede aiuto per lenire il malessere fisico di cui è affetto, ma anche il timore e l’ansia che esso provoca e che lo rendono ancor più fragile e vulnerabile. In passato nei paesi della campagna e di montagna, esisteva la figura del “medico condotto” a cui era devoluta l’assistenza sanitaria di tutta la comunità: era un amico a cui la gente del paese si rivolgeva con fiducia perché sapeva di riceverne esperienza sì, ma anche accoglienza, sostegno, rassicurazione, partecipazione e disponibilità. Non erano certo disponibili presidi diagnostico-terapeutici d’avanguardia, ma la gente guariva lo stesso. E sapete perché? Perché forse aveva maggiore efficacia terapeutica quella pacca sulla spalla accompagnata da due parole di rassicurazione, spesso pronunciate in modo ironico, di qualsiasi medicina o preparato farmacologico.

Il punto è che la medicina, soprattutto nei Paesi occidentali, si è sviluppata partendo dal presupposto che la malattia rappresenti un fenomeno che aggredisce dall’esterno l’individuo, minandone la salute, e del quale questo è vittima passiva: la conseguenza è che tutto l’onere della cura viene devoluto esclusivamente a sostanze chimiche, all’effetto di terapie di tipo fisico, a trattamenti chirurgici, ecc. Tali terapie sono altrettanto esterne ed estranee al corpo del soggetto che le riceve, qualche volta addirittura ne minano e ne abbattono le capacità di difesa, e ancora una volta vengono subite in modo passivo.

Un’impostazione di questo tipo nega di fatto che l’organismo umano possegga delle proprie personali capacità di auto-terapia e, soprattutto, che la mente umana abbia la possibilità di attivare (o di disattivare) tali capacità.

Queste convinzioni sono maturate in me gradualmente negli ultimi anni di vita professionale ospedaliera e sono anche il frutto di un discreto travaglio personale. Durante i primi anni in ospedale ho applicato le nozioni acquisite durante la preparazione universitaria, ho imparato a ragionare secondo i canoni della medicina ufficiale, ho acquisito progressivamente esperienza pratica, grazie agli insegnamenti di un grande maestro della Chirurgia ortopedica e traumatologica. Egli mi ha aperto gli occhi sul fatto che la realtà pratica quotidiana si discosta alquanto dalle nozioni teoriche riportate sui libri e che la formulazione di una buona diagnosi e la scelta terapeutica giusta per ogni paziente passa anche attraverso un’attenta valutazione dell’atteggiamento psicologico e comportamentale del paziente: durante le visite in corsia spesso diceva a me, giovane medico neolaureato, riferendosi a un ricoverato in condizioni molto gravi che dimostrava però uno spirito di reazione spiccato: “questo paziente, comunque, guarirà, indipendentemente dal nostro atteggiamento terapeutico”. O, viceversa, era sicuro dello scarso risultato della terapia, per quanto correttamente impostata, in pazienti con un atteggiamento passivo nei confronti della malattia. E devo dire che non si è mai sbagliato.

Mano a mano che acquisivo esperienza mi rendevo anche conto di come la medicina sia tutt’altro che una scienza esatta, di come in ambito medico 2 + 2 non faccia quasi mai 4 e che quando ciò per caso accade bisogna drizzare le antenne, perché significa che c’è qualcosa che non quadra.

E perché avviene ciò? Perché la standardizzazione dei metodi terapeutici non porta quasi mai ad una univocità di risultati? Perché lo stesso farmaco o il medesimo approccio terapeutico, a parità di patologia, a volte porta a effetti diversi, se non addirittura opposti?

La risposta a questi interrogativi è maturata gradualmente nel tempo, man mano che si faceva strada in me la convinzione che il benessere fisico dell’individuo non fosse esclusivamente legato all’assenza di patologie organiche, come mi era stato insegnato, ma che dipendesse anche, e a volte soprattutto, da altri fattori.

Inizialmente non avevo le idee molto chiare su cosa cercare, ma istintivamente fui attratto e incuriosito dalle tecniche chiroterapiche delle quali avevo notato l’efficacia nella risoluzione di numerosi quadri sintomatologici a carico dell’apparato muscolo-scheletrico che le terapie farmacologiche, fisioterapiche e chirurgiche tradizionali non riuscivano a risolvere in maniera soddisfacente. Frequentai, quindi, un corso di formazione in Medicina Manuale organizzato dall’Associazione Italiana di Medicina Manuale (A.I.M.M.), dove imparai le tecniche manipolative classiche e dove capii che esistevano, e anzi erano quantitativamente preponderanti, le patologie funzionali dell’organismo. Avevo conosciuto uno dei fattori che cercavo.

La patologia funzionale è rappresentata da

quell’insieme di alterazioni del normale funzionamento bio-meccanico delle strutture muscolo-scheletriche che è fonte di disturbi di varia natura in assenza di lesioni strutturali di rilievo strumentalmente dimostrabili, o per lo meno in assenza di variazioni di rilievo della situazione strutturale rispetto al periodo antecedente la comparsa dei sintomi.

Una situazione tipica,
un esempio chiarificatore

Un paziente di 60 anni si presenta dal medico di famiglia perché da una decina di giorni accusa una cervicalgia insorta dopo aver effettuato un movimento improvviso di rotazione con la testa mentre parcheggiava l’auto. Normalmente il medico, in questi casi, prescrive una RX della colonna cervicale per valutarne la struttura: la radiografia nel 99,9% dei casi evidenzia un quadro di artrosi cervicale più o meno accentuato (perché nel 99,9% dei casi un individuo di 60 anni ha una colonna cervicale artrosica), e con ciò la diagnosi è fatta e il medico dirà al paziente che la causa del suo dolore al collo è l’artrosi, cioè il danno organico presente nella sua colonna cervicale. Gli prescriverà un farmaco anti-infiammatorio e nel migliore dei casi dei massaggi per ammorbidire la muscolatura contratta per il dolore: il medico avrà la convinzione, così, di aver fatto tutto il suo dovere. Quando poi, però, lo stesso paziente tornerà dal medico dopo un mese di massaggi e medicine dicendo che continua ad aver male al collo il medico risponderà: ”deve rassegnarsi, lei ha l’artrosi!”. Questo è il confine che la medicina ufficiale non è in grado di superare: qui la medicina si ferma.
Ma come è possibile che il collo “artrosico” del nostro paziente, visto che l’artrosi è una malattia degenerativa delle articolazioni che colpisce la quasi totalità della popolazione dai 25-30 anni in su in modo progressivo e ingravescente con l’avanzare dell’età, non ha dato disturbi al paziente fino a 10 giorni prima e poi, per un banale movimento, ha iniziato a perseguitarlo? Per l’artrosi, sì, ma l’artrosi il paziente l’aveva anche prima di 10 giorni fa eppure non aveva male al collo. Se poi si pensa che lo stesso torcicollo può colpire, per un analogo movimento rotatorio del capo, anche un ragazzino di 8 anni che l’artrosi indiscutibilmente non ha, allora diventa veramente difficile spiegare i sintomi del nostro paziente con la semplice evidenza radiologica di un’artrosi della colonna cervicale: siamo alle solite “2+2 non fa 4”. Il fatto è che fino a questo punto il medico si è preoccupato di ricercare una lesione organica, strutturale che giustificasse la sintomatologia, convinto che solo una patologia di questo tipo potesse essere in grado di dare i sintomi accusati dal paziente. La realtà è che i sintomi del paziente sono provocati da una disfunzione, cioè da un difetto di funzionalità, di una articolazione inter-vertebrale indotta dal movimento brusco di rotazione del capo. Un difetto funzionale non rilevabile con esami strumentali di sorta, ma visitando il collo del paziente (e anche questo sarebbe un argomento scottante da trattare: la disabitudine dei medici moderni alla semeiotica medica e chirurgica) e verificando con specifici test manuali, in modo estremamente preciso, la sede e le caratteristiche della lesione funzionale: questo consentirà di effettuare le manovre manuali terapeutiche più opportune e mirate per ripristinare la normale mobilità e funzionalità di quella specifica articolazione. Il risultato sarà la remissione in tempi molto rapidi dei sintomi accusati dal paziente e di tutti i fenomeni collaterali indotti dalla causa funzionale (ad esempio le contratture riflesse dei muscoli del collo).
Queste sono le ragioni per le quali la maggior parte dei miei pazienti sono persone deluse dal fatto di non aver risolto i loro problemi fisici pur avendo consultato i più quotati specialisti e pur essendosi sottoposti a una miriade di esami strumentali che non sono stati in grado di chiarire le ragioni dei loro mali: giungono in genere nel mio studio accompagnati da una buona dose di scetticismo, per l’insoddisfazione fino a quel punto accumulata, con scarse speranze, anche questa volta, di trovare soluzione ai propri problemi e trascinandosi dietro “valigie” piene degli esami eseguiti.

 

La volontà di offrire al paziente
un’altra opzione terapeutica

Ma dopo aver preso coscienza dell’esistenza delle patologie funzionali in ambito muscolo-scheletrico e della possibilità di curarle con tecniche manuali che, almeno in Italia, sono spesso considerate “non convenzionali”, la continua necessità di ricercare le “cause” dei disturbi clinici e di capire perché, in casi numericamente molto limitati ma comunque presenti, si ottengano risultati solo parzialmente positivi, il mio interesse si è rivolto allo studio delle malattie funzionali viscerali, come per l’apparato scheletrico, cioè di quei quadri clinici viscerali determinati non da una lesione anatomica specifica di un organo interno (ulcera dello stomaco, diverticoli del colon, cisti ovariche, neoplasie ecc.) ma da una alterazione della funzionalità di un organo che anatomicamente risulta integro e sano.
Sono quei casi in cui il paziente accusa dei sintomi viscerali a cui però gli esami strumentali, anche molto sofisticati e mirati, non danno una spiegazione risultando per lo più negativi in quanto servono a mettere in evidenza lesioni anatomiche organiche che non sono presenti. Anche in questi casi la medicina ufficiale si limita alla prescrizione di farmaci sintomatici e spiega l’origine dei disturbi, per lo più, con la “somatizzazione” di stati d’ansia, stress, ecc. Le tecniche terapeutiche utilizzabili sono quelle manuali dell’osteopatia viscerale e dell’osteopatia cranio-sacrale. L’acquisizione della padronanza nell’applicazione di queste tecniche e il loro impiego pressoché quotidiano hanno poi messo in evidenza un altro aspetto importante, oggi direi fondamentale, nelle dinamiche che intervengono a determinare l’equilibrio generale dell’individuo: l’interconnessione esistente, da un punto di vista funzionale, fra strutture scheletriche ed organi viscerali attraverso collegamenti di vario tipo, nervoso, neuro-vegetativo, muscolare, circolatorio, fasciale (cioè attraverso l’intermediazione del tessuto connettivo, che è l’unico tessuto ubiquitario nell’organismo), che fornisce la spiegazione di quelle che si definiscono “correlazioni viscero-somatiche” o “somato-viscerali”.
Ad esempio, quante donne durante le mestruazioni soffrono di dolori alla schiena in sede lombare e non di dolori addominali? Eppure la mestruazione è una fase funzionale del ciclo mestruale squisitamente viscerale! 
Anche nel caso del nostro paziente cervicalgico vanno ricercate e, se presenti, trattate con le specifiche tecniche eventuali disfunzioni extra-cervicali che possano, attraverso le correlazioni viscero-somatiche di cui dicevo, predisporre la colonna cervicale ad andare in crisi nel momento in cui il paziente ruota la testa per parcheggiare l’auto: la colonna cervicale si troverà, in questo caso, in una situazione funzionale di pre-lesione e il movimento rotatorio del capo sarà soltanto il fattore meccanico scatenante del torcicollo. È chiaro allora come in questi casi il trattamento manuale a livello cervicale non sarà sufficiente per ottenere un risultato clinico stabile ed il torcicollo tenderà a recidivare. Bisognerà trattare anche le cause predisponenti. Ad esempio patologie dello stomaco o della colecisti possono creare una pre-lesione funzionale a livello cervicale attraverso una via di connessione nervosa: il nervo vago; analogamente per via nervosa si ha la trasmissione a livello cervicale dei disturbi del muscolo diaframma (il nervo in questione è qui il nervo frenico). 
Si vede quindi come sia difficile e sbagliato standardizzare la terapia che va invece impostata di volta in volta in modo “personalizzato”, in relazione alla specifica situazione individuale.

Vorrei ancora porre l’attenzione sul fatto che le lesioni funzionali rappresentano la premessa che, se non rimossa, porterà nell’arco di un tempo più o meno lungo alla lesione organica del viscere o della struttura colpita. Ne consegue che il trattamento manuale delle patologie funzionali assume una valenza molto importante nell’ambito della prevenzione. Inoltre, proprio per il nesso di consequenzialità che c’è fra malattie funzionali e malattie organiche, la medicina funzionale, a mio parere, non è affatto una “medicina alternativa”: piuttosto la definirei “complementare” od al massimo “integrativa” della medicina organicistica tradizionale.

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